domenica 21 agosto 2011

Le nuove norme in tema di Translatio Iudicii fra giurisdizioni: riflessioni di sintesi sul duplice e "scoordinato" intervento del Legislatore

Art. 59 Legge 18 giugno 2009, n. 69



1. Il giudice che, in materia civile, amministrativa, contabile, tributaria o di giudici speciali, dichiara il proprio difetto di giurisdizione indica altresì, se esistente, il giudice nazionale che ritiene munito di giurisdizione. La pronuncia sulla giurisdizione resa dalle sezioni unite della Corte di cassazione è vincolante per ogni giudice e per le parti anche in altro processo.
2. Se, entro il termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato della pronuncia di cui al comma 1, la domanda è riproposta al giudice ivi indicato, nel successivo processo le parti restano vincolate a tale indicazione e sono fatti salvi gli effetti sostanziali e processuali che la domanda avrebbe prodotto se il giudice di cui è stata dichiarata la giurisdizione fosse stato adito fin dall'instaurazione del primo giudizio, ferme restando le preclusioni e le decadenze intervenute. Ai fini del presente comma la domanda si ripropone con le modalità e secondo le forme previste per il giudizio davanti al giudice adito in relazione al rito applicabile.
3. Se sulla questione di giurisdizione non si sono già pronunciate, nel processo, le sezioni unite della Corte di cassazione, il giudice davanti al quale la causa è riassunta può sollevare d'ufficio, con ordinanza, tale questione davanti alle medesime sezioni unite della Corte di cassazione, fino alla prima udienza fissata per la trattazione del merito. Restano ferme le disposizioni sul regolamento preventivo di giurisdizione.

4. L'inosservanza dei termini fissati ai sensi del presente articolo per la riassunzione o per la prosecuzione del giudizio comporta l'estinzione del processo, che è dichiarata anche d'ufficio alla prima udienza, e impedisce la conservazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda.

5. In ogni caso di riproposizione della domanda davanti al giudice di cui al comma 1, le prove raccolte nel processo davanti al giudice privo di giurisdizione possono essere valutate come argomenti di prova.


Art. 11 d. lgs. 2 luglio 2010, n. 104
1. Il giudice amministrativo, quando declina la propria giurisdizione, indica, se esistente, il giudice nazionale che ne è fornito.


2. Quando la giurisdizione è declinata dal giudice amministrativo in favore di altro giudice nazionale o viceversa, ferme restando le preclusioni e le decadenze intervenute, sono fatti salvi gli effetti processuali e sostanziali della domanda se il processo è riproposto innanzi al giudice indicato nella pronuncia che declina la giurisdizione, entro il termine perentorio di tre mesi dal suo passaggio in giudicato.


3. Quando il giudizio è tempestivamente riproposto davanti al giudice amministrativo, quest'ultimo, alla prima udienza, può sollevare anche d'ufficio il conflitto di giurisdizione.


4. Se in una controversia introdotta davanti ad altro giudice le sezioni unite della Corte di cassazione, investite della questione di giurisdizione, attribuiscono quest'ultima al giudice amministrativo, ferme restando le preclusioni e le decadenze intervenute, sono fatti salvi gli effetti processuali e sostanziali della domanda, se il giudizio è riproposto dalla parte che vi ha interesse nel termine di tre mesi dalla pubblicazione della decisione delle sezioni unite.


5. Nei giudizi riproposti, il giudice, con riguardo alle preclusioni e decadenze intervenute, può concedere la rimessione in termini per errore scusabile ove ne ricorrano i presupposti.


6. Nel giudizio riproposto davanti al giudice amministrativo, le prove raccolte nel processo davanti al giudice privo di giurisdizione possono essere valutate come argomenti di prova.


7. Le misure cautelari perdono la loro efficacia trenta giorni dopo la pubblicazione del provvedimento che dichiara il difetto di giurisdizione del giudice che le ha emanate. Le parti possono riproporre le domande cautelari al giudice munito di giurisdizione.






Tratto da "Considerazioni Finali" - Tesi di laurea magistrale (pgg. 355 - 362)


A conclusione del lungo cammino percorso, sono doverose alcune considerazioni finali. 
La scelta del legislatore (2009 – 2010) di estendere il meccanismo della translatio iudicii ai rapporti fra giurisdizioni deve essere valutata sicuramente in termini positivi. In un sistema “dualista” di tutela nei confronti dei pubblici poteri (come quello italiano) essa rappresenta un imprescindibile rimedio “a valle” alle incertezze del cittadino (e del suo avvocato) nella scelta del giudice da adire.

In un ordinamento ove sia garantito, attraverso una puntuale disciplina dei rapporti fra ordini giurisdizionali e ad una precisa definizione dei criteri di riparto, l’accesso effettivo al giudice munito di giurisdizione sulla controversia, l’assenza di un meccanismo di raccordo tra le giurisdizioni non implicherebbe significativi problemi. Al contrario, nel nostro ordinamento (ove il riparto fra giurisdizione ordinaria ed amministrativa è essenzialmente fondato sulla “natura” della posizione soggettiva fatta valere in giudizio, e per di più ove mai si è riusciti a definire con chiarezza la situazione giuridica qualificata con la locuzione “interesse legittimo”) la translatio iudicii viene inevitabilmente ad assumere un ruolo ed un significato ulteriore: da norma “di chiusura” del sistema, atta a garantire la possibilità al cittadino (nelle esigue ipotesi in cui la legge non sia riuscita a garantire l’accesso immediato e diretto al giudice munito di giurisdizione) di rimediare all’errore traslando il processo davanti al giudice munito di giurisdizione, essa viene (di fatto) chiamata a sopperire ad un deficit di altre essenziali regole ed istituti.
Va peraltro ribadito come (se si esclude il criterio del petitum, il quale consente “di fatto” all’attore la scelta del giudice) ciascuno dei criteri di riparto della giurisdizione analizzati nel corso della presente ricerca (ad esempio: il criterio della “materia” oggetto della controversia ovvero quello che distingue fra norme di diritto pubblico e privato) presenti ambiguità e sia in grado di determinare, in misura maggiore o minore, incertezze applicative. Al riguardo, si può richiamare alla memoria il breve periodo (1998 – 2004) in cui il riparto era stato (nella sostanza) fondato su c.d. “blocchi di materie”: l’indeterminatezza delle locuzioni utilizzate dal legislatore per definire il nuovo ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (servizi pubblici – edilizia – urbanistica ecc...) aveva egualmente determinato notevoli difficoltà per gli operatori del diritto (e per gli utenti del “sistema – giustizia”) nell’individuazione del giudice competente. Del resto, è lo stesso linguaggio umano ad essere (di per sé) limitato e spesso foriero di incertezza: di conseguenza, l’assenza di un meccanismo processuale che consenta la “riattivazione” del giudizio innanzi all’organo giurisdizionalmente competente costituirebbe, in qualsivoglia ordinamento, una grave violazione dei principi costituzionali.
Ciò premesso, la disciplina introdotta dall’art. 59 l. n. 69/2009 e dal recentissimo art. 11 d. lgs. n. 104/2010 é senza dubbio perfettibile. 
Entrambe le disposizioni appaiono frutto di una riflessione sistematica non ancora matura, nonché di una notevole confusione concettuale da parte del legislatore. Quest’ultimo, infatti, non sembra aver correttamente assimilato le caratteristiche proprie di tre differenti tecniche di rimedio all’errore sul giudice da adire: translatio iudicii, errore scusabile, riproposizione della domanda con effetti retroattivi.
La translatio iudicii (come più volte ribadito nel corso della presente ricerca) consiste in un “trasferimento” del processo dal giudice erroneamente adito a quello munito del presupposto processuale del caso (giurisdizione / competenza), in seguito al quale: a) il processo continua mediante riassunzione (vale a dire un atto di mero impulso processuale); b) essendo il medesimo processo a proseguire innanzi al giudice adito in seconda battuta, è naturale e congenita la conservazione degli effetti prodotti dalla domanda proposta al giudice errato (non essendo stata proposta una seconda, seppur identica, domanda davanti al giudice del rinvio); c) l’accertamento negativo compiuto dal giudice a quo sulla propria giurisdizione / competenza costituisce, in seguito alla riassunzione davanti al giudice indicato, giudicato interno (essendo il medesimo processo a proseguire): rientra poi nella potestà del legislatore prevedere (o meno) un vincolo (totale o parziale) in capo al giudice adito in seconda battuta all’indicazione contenuta nella pronuncia declinatoria; d) tale indicazione, peraltro, è necessaria: il giudice che dichiara il proprio difetto di giurisdizione / competenza deve contestualmente indicare l’organo giudiziario ritenuto munito del presupposto processuale, in modo tale che il processo possa immediatamente considerarsi pendente davanti a quest’ultimo. Per come è stata disciplinata nell’ordinamento italiano, la riassunzione del processo (mediante cui si realizza la translatio) consiste infatti in un atto d’impulso processuale, che agisce su una situazione di quiescenza processuale ma pur sempre di litispendenza qualificata e non semplice (quest’ultima aspetto eccezionalissimo nell’ordinamento processuale e proprio del regime delle impugnazioni, istituto ben diverso dalla riassunzione del processo), al fine di rivitalizzare il rapporto fra giudice e parti ed evitare l’estinzione del processo: per tali motivi, nel caso di pronuncia declinatoria della giurisdizione si dovrebbe imporre al giudice a quo di indicare non solo (come previsto dalle norme in commento) il plesso giurisdizionale competente ma anche il giudice “interno” al plesso del rinvio munito di competenza nel caso concreto; e ciò anche in quei casi (ad esempio: trasmigrazione successiva a declinatoria proveniente da un giudice di merito / declinatoria proveniente dalla Cassazione con rinvio a favore della giurisdizione amministrativa o contabile) in cui da tale indicazione non potrebbe derivare un vincolo in capo al giudice ad quem, considerando che esso non è elemento né imprescindibile né intrinseco alla translatio. Pertanto, sebbene oggi si possa ritenere che il legislatore abbia voluto introdurre un nuovo fenomeno di litispendenza semplice, in assenza di una precisa indicazione anche sulla competenza del giudice del rinvio si sarebbe comunque in presenza di una riassunzione quantomeno sui generis; e) trattandosi di una riassunzione, se essa non avviene entro un termine perentorio ha luogo l’estinzione del processo e, conseguentemente, la mancata conservazione degli effetti della domanda; f) trattandosi del medesimo processo che prosegue, si dovrebbero conservare le prove raccolte davanti al giudice a quo (in quanto compatibili con quelle ammesse dal rito ad quem), ed al contempo le preclusioni maturate; g) è irrilevante la scusabilità o meno dell’errore compiuto dall’attore nell’adire il giudice a quo: la translatio è in ogni caso praticabile; h) la translatio iudicii mai potrebbe costituire un’automatica rimessioni in termini da decadenze e preclusioni già maturate nel precedente segmento processuale.
Diversamente, la rimessione in termini per errore scusabile: a) può operare, a differenza della trasmigrazione del processo, solo ove l’azione sia esperibile entro un termine di decadenza e non anche nelle ipotesi di diritti soggetti a prescrizione; b) non è automatica ma subordinata ad una valutazione (discrezionale) del giudice adito in seconda battuta: può essere concessa solo nelle ipotesi in cui si riscontrino obiettive incertezze normative (o giurisprudenziali) riguardo alla materia oggetto della controversia; c) il giudizio instaurato innanzi al giudice errato è definitivamente chiuso in rito; d) del precedente processo nulla è conservato, nemmeno gli effetti sostanziali e processuali della precedente domanda: la seconda proposizione della domanda (davanti al giudice corretto) dà infatti origine ad un processo completamente nuovo; di conseguenza, non si conservano nemmeno le preclusioni maturate (mentre, per quanto concerne il materiale istruttorio acquisito, si potrebbe ammettere una sua valutazione ai sensi dell’art. 116, 2 c.p.c.); e) nel caso in cui la rimessione sia concessa ma l’attore non rispetti il termine per proporre nuovamente la domanda, non è possibile discutere di estinzione del processo (poiché il primo è definitivamente chiuso in rito ed il secondo non è mai iniziato); f) non essendovi continuazione del medesimo processo, l’indicazione (da parte del giudice adito in prima battuta) dell’organo munito di giurisdizione / competenza non è di per sé necessaria né tantomeno potrebbe avere efficacia vincolante per le parti e per il giudice davanti al quale la domanda è nuovamente proposta: quest’ultimo, infatti, ben potrebbe dichiararsi a sua volta privo di potestas decidendi.
Per quanto concerne infine la tecnica della riproposizione della domanda con effetti retroattivi, dall’esame dell’art. 204 BGB tedesco si evince come essa consista sostanzialmente in una fictio iuris. Si è infatti in presenza di un processo che inizia ex novo e senza alcun collegamento con il precedente giudizio avente per oggetto la medesima domanda di giustizia (e già chiusosi definitivamente in rito), se si esclude una peculiarità: nel caso in cui la domanda sia stata riproposta entro un termine perentorio dalla chiusura in rito del giudizio originario, i suoi effetti sostanziali e processuali sono fatti retroagire ex lege al momento della prima proposizione della stessa; una tecnica così congegnata, come si può facilmente constatare, presenta alcune caratteristiche proprie dell’errore scusabile (ossia quelle elencate sub c – d – e – f) ed altre riconducibili alla translatio (cfr. sub g – h limitatamente alle decadenze già maturate). 
La scarsa dimestichezza nel distinguere le caratteristiche proprie delle varie tecniche di rimedio all’errore sul giudice da adire è stata, con ogni probabilità, uno dei fattori principali che ha determinato un duplice e “scoordinato” intervento del legislatore in materia.
L’assenza di una ponderata riflessione in materia di translatio transgiurisdizionale ha condotto il legislatore del 2009 (cimentatosi nel tentativo di adattare l’istituto alle peculiarità di una trasmigrazione fra giurisdizioni) ad introdurre un modello di riassunzione del processo quantomeno sui generis, il quale presenta caratteristiche proprie della riproposizione della domanda con effetti retroattivi (ad esempio: retrodatazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda, valutabilità delle prove raccolte innanzi a giudice privo di giurisdizione quali argomenti di prova).
Nell’ambito dei lavori preparatori al nuovo Codice del processo amministrativo, il legislatore delegato ha invece chiaramente optato (per i motivi sopra esaminati) per la tecnica della riproposizione della domanda con effetti retroattivi. Da ciò ha avuto origine il meccanismo disciplinato dall’art. 11 c.p.a.: meccanismo peraltro imperfetto, poiché la norma discute di “salvezza” degli effetti della domanda (anziché di “retrodatazione” dei medesimi), di conservazione delle preclusioni intervenute nel processo precedente nonché di giudizio riproposto “dalla parte che vi ha interesse”.
Le classificazioni sopra riportate non possono considerarsi meri esercizi di stile. Definire con precisione un determinato istituto processuale assume peculiare importanza laddove il dato normativo risulti oscuro o lacunoso: ove non vi sono “regole”, infatti, dovrebbero entrare in gioco i “principi” (come affermato dalla stessa Consulta nella sentenza n. 77/2007). Nulla impedisce al legislatore (nella sua sovranità) di creare figure “ibride” fra le tre sopra descritte, come quelle previste dalle norme emanate in seguito alla “rivoluzione pretoria” del 2007: in tal caso, però, sarà alquanto difficile colmare le lacune con i principi (non sapendo a quali di essi far riferimento), e le decisioni dei giudici risulteranno prive di uniformità.
Va oltretutto evidenziata la scelta (infelice) del legislatore del 2010 di optare per una tecnica processuale differente rispetto a quella adottata nell’ambito della disciplina “generale” prevista dall’art. 59 l. n. 69/2009. Se, da un lato, è vero che le pronunce del periodo immediatamente successivo all’emanazione del Codice ne hanno fornito una lettura che mal si addice alla sostanza della disposizione (interpretando il termine “riproposizione” nel senso di mera “riassunzione” del processo), ciò non potrebbe impedire successivi revirement giurisprudenziali: in tal caso, un coordinamento fra le due disposizioni diverrebbe pressoché inattuabile e la tematica translatio sarebbe oggetto di dispute senza fine.
Per tali motivi si può concordare con quella corrente dottrinaria che domanda a gran voce l’emanazione di uno “statuto sulla giurisdizione”, vale a dire una legge generale (frutto di un’attenta riflessione sistematica) che disciplini il sistema giurisdizionale e le giurisdizioni con particolare riferimento ai rapporti tra le stesse. Esso dovrebbe contenere una puntuale regolamentazione dei criteri di riparto tra le giurisdizioni e delle modalità della loro applicazione, nonché prevedere la diffusione di nuovi mezzi d’informazione a favore del cittadino, affinché quest’ultimo possa esercitare (con maggiore sicurezza) il diritto d’accesso al giudice considerato dall’ordinamento in grado di fornire la più adeguata risposta alla sua domanda di giustizia; dovrebbe prevedere una disciplina generale (derogabile solo in caso di obiettive e riscontrabili ragioni) dell’istituto della translatio iudicii che sostituisca quella contenuta nelle norme analizzate; dovrebbe infine ridefinire modi, forme e (soprattutto) tempi di decisione della questione di giurisdizione, se del caso mediante l’introduzione di un mezzo d’impugnazione analogo al regolamento necessario di competenza previsto nel processo civile (art. 42 c.p.c.).
Un’ultima annotazione appare doverosa relativamente all’efficienza della translatio iudicii quale tecnica di rimedio all’errore sulla giurisdizione. 
Sin da quando (nel lontano 1965) si iniziò a discutere di prosecuzione del processo nel caso di pronuncia declinatoria di giurisdizione, la tendenza è sempre stata quella di ricostruire il problema con un approccio comparativo all’ipotesi dell’incompetenza, e dunque ricorrendo alla previsione (già nota e collaudata nel processo civile) dell’art. 50 c.p.c.: di conseguenza, dopo le storiche pronunce del 2007, il dibattito dottrinale e giurisprudenziale si è naturalmente sviluppato attorno al concetto di translatio da applicare nei rapporti fra giurisdizioni, senza peraltro una seria riflessione riguardo le difficoltà insite nell’unificare (in un unico “reticolo processuale”) ordini giurisdizionali ancora oggi disciplinati da riti processuali assai differenti. 
Alla luce di quanto emerso nel corso della presente ricerca, a parere di chi scrive si dovrebbe seriamente riconsiderare l’opzione della riproposizione della domanda con effetti retroattivi: essa garantirebbe eguale effettività della tutela giurisdizionale, ma impedirebbe il sorgere di un gran numero di problematiche affrontate in questo studio.
E ciò pur nella consapevolezza che il suggerimento non sarà accolto, in quanto la tecnica è considerata incompatibile col principio dell’economia processuale e della ragionevole durata del processo: principio che, oggi, appare idoneo a legittimare qualsiasi intervento manipolativo sulle norme, anche a costo di sacrificare l’intrinseca coerenza dell’ordinamento processuale e di sconvolgere i principi che lo sorreggono.





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