domenica 21 agosto 2011

Introduzione alla Translatio - Indice della Tesi

Tratto dalla mia tesi di Laurea Magistrale in Giurisprudenza (2011) 
(Diritto Processuale Civile & Diritto Processuale Amministrativo)

Pgg. 1 - 10






“Il giusto processo viene celebrato non già per sfociare in pronunce procedurali che non coinvolgono i rapporti sostanziali delle parti che vi partecipano, siano esse attori o convenuti, ma per rendere pronuncia di merito riscrivendo chi ha ragione e chi ha torto... Il processo deve avere per oggetto la verifica della sussistenza dell’azione in senso sostanziale di chiovendiana memoria, e non deve, nei limiti del possibile, esaurirsi nella discettazione sui presupposti processuali...” (Corte Cost., 14 ottobre 1986, n. 220, est. Virgilio Andrioli).

Il presente studio ha per oggetto l’istituto processuale della translatio iudicii, ed in particolare la sua applicabilità nei rapporti fra giurisdizione ordinaria ed amministrativa. 
Trattasi di un meccanismo processuale attraverso il quale il giudizio, sebbene originariamente incardinato davanti al giudice “errato”, è in grado di “proseguire” verso una decisione nel merito della controversia. La translatio iudicii, infatti, consiste in una “traslazione” (“trasmigrazione / trasferimento”) del processo instaurato davanti ad un organo giudiziario privo di competenza (nonché, a partire dal 2007, privo di giurisdizione), grazie alla quale il medesimo può “continuare” presso l’organo munito di potestas decidendi con conseguente salvezza degli effetti sostanziali e processuali prodotti dalla relativa domanda di giustizia (e, per lo meno in linea di principio, delle attività compiute nel segmento processuale svoltosi davanti al giudice originariamente adito).
L’istituto della translatio iudicii fece il suo ingresso nell’ordinamento italiano nel lontano 1940, introdotta dal legislatore nel novello codice di procedura civile. A differenza che nell’antecedente codice di rito (1865), ove all’eventuale rilievo dell’incompetenza / difetto di giurisdizione del giudice sarebbe seguita inevitabilmente la chiusura in rito del processo (mediante pronuncia di absolutio ab istantia), in esso si distinsero nettamente le conseguenze derivanti dall’errore nell’individuazione del giudice competente (sempre rimediabile) da quelle del ricorso proposto al giudice privo di giurisdizione (viceversa irrimediabile).
Da un lato, infatti, venne disciplinata la “questione di competenza”: essa consiste nella individuazione del magistrato, fra i molteplici appartenenti al medesimo ordine giurisdizionale (e tutti muniti di giurisdizione), cui spetta nel caso concreto quella frazione di giurisdizione tecnicamente denominata “competenza”. Complice l’influenza del pensiero di due Maestri della processualcivilistica (Giuseppe Chiovenda e Lodovico Mortara), la disciplina introdotta dal codice di procedura civile del 1940 in materia di competenza (e di conseguente rilievo dell’incompetenza) fu espressione di una “visione unitaria della giurisdizione ordinaria”: l’aver proposto azione davanti a qualsivoglia giudice ordinario venne considerata sufficiente manifestazione di volontà di adire la giurisdizione nel suo complesso (intesa come potere giudicante dello Stato).
Da qui la possibilità di rimediare all’eventuale errore sulla competenza del giudice adito mediante l’utilizzo del meccanismo disciplinato dall’art. 50 c.p.c.: nel caso in cui il processo fosse stato trasferito (mediante “riassunzione”, vale a dire un semplice atto d’impulso processuale) davanti al giudice indicato come competente dall’organo adito in prima battuta, il medesimo processo sarebbe potuto proseguire con conservazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda. In tal modo, nel caso in cui il diritto fatto valere in giudizio fosse soggetto a prescrizione, la proposizione della domanda davanti al giudice incompetente (e, soprattutto, la possibilità di una “continuazione” del medesimo giudizio) avrebbe prodotto l’effetto c.d. “interruttivo – continuativo” della prescrizione (derivante dal combinato disposto della disciplina prevista dagli artt. 2943 – 2945 c.c.); invece, nel caso in cui l’azione fosse sottoposta ad un termine di decadenza, la domanda rivolta al giudice incompetente avrebbe egualmente impedito il maturare della stessa (ai sensi dell’art. 2966 c.c.).
Nel caso di domanda proposta a giudice privo di giurisdizione, invece, non venne introdotto alcun meccanismo salvifico per l’attore analogo a quello previsto dall’art. 50 c.p.c. in tema di incompetenza. La disciplina codicistica relativa alla decisione sulla “questione di giurisdizione”, infatti, risentì delle origini storico - politiche del sistema italiano della giustizia amministrativa: un sistema emerso dalle ceneri dell’illusione (belga) della “giurisdizione unica”, e che a fatica conquistò (e conservò) competenze giurisdizionali. Per molto tempo si dubitò persino della natura “giurisdizionale” delle competenze attribuite ai giudici amministrativi (così come di quelle devolute ai restanti “giudici speciali”, in primis quello contabile e quello tributario), i quali continuavano ad essere concepiti nella forma mentis degli operatori del diritto come una categoria più legata all’esecutivo che al potere giudiziario: tali considerazioni resero inconcepibile una qualsiasi possibilità di comunicazione fra la giurisdizione ordinaria ed i restanti plessi giurisdizionali, tendenzialmente chiusi e gelosi delle proprie prerogative faticosamente conquistate, i cui riti processuali non sembrarono fornire le medesime garanzie di imparzialità ed indipendenza caratterizzanti il processo innanzi ai magistrati ordinari.
Di conseguenza, la disciplina contenuta nel codice di rito in materia di giurisdizione risultò in gran parte improntata (come si vedrà nel corso della trattazione) sull’antico modello del “conflitto” fra poteri dello Stato piuttosto che su quello del “regolamento” del potere giurisdizionale complessivamente inteso. Nonostante emergessero periodicamente in dottrina opinioni favorevoli all’intercomunicabilità fra giurisdizioni (le quali, nella maggior parte dei casi, auspicarono un’applicazione analogica del meccanismo disciplinato dall’art. 50 c.p.c. alle ipotesi di declinatoria di giurisdizione), per oltre sessant’anni la giurisprudenza di legittimità negò fermamente tale possibilità: pertanto, all’errore sul giudice munito di giurisdizione sulla controversia conseguiva la chiusura in rito del processo, salva la possibilità per l’attore di riproporre ex novo la domanda di giustizia davanti al corretto plesso giurisdizionale (senza, ovviamente, alcuna possibilità di conservazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda previamente proposta).
Tenuto conto della cronica lentezza del “sistema – giustizia” a pervenire ad una decisione (anche solo) sulla questione di giurisdizione, si può facilmente comprendere come a tale onere l’attore avrebbe potuto adempiere (in linea di massima e pur con grave danno al principio di economia processuale) unicamente nelle ipotesi in cui la pretesa azionata in giudizio consistesse in un diritto soggettivo sottoposto a termine di prescrizione; nel caso invece di azioni esperibili unicamente entro brevi termini di decadenza (si pensi, a titolo esemplificativo, alle azioni possessorie previste dall’art. 1168 c.c.), una pronuncia declinatoria della giurisdizione avrebbe determinato, con ogni probabilità, un grave diniego di giustizia “sostanziale”.
Da siffatte considerazioni si può intuire come l’assenza di un meccanismo salvifico nel caso di errore sulla giurisdizione determinasse conseguenze deleterie in particolare nell’ambito dei rapporti fra giurisdizione ordinaria ed amministrativa.
Nelle controversie aventi come parte in causa una Pubblica Amministrazione, infatti, le esigenze di tutela del singolo devono essere bilanciate con quelle di celerità dell’azione amministrativa e di certezza dei rapporti fra privati ed Amministrazione: di conseguenza, l’azione tipica a tutela del privato nei confronti dei pubblici poteri (vale a dire, l’azione d’annullamento del provvedimento amministrativo per lesione di interessi legittimi) è sempre stata subordinata ad un brevissimo termine decadenziale, decorso il quale il provvedimento sarebbe divenuto “inoppugnabile”.
A ciò si deve aggiungere la peculiare fisionomia del nostro sistema “dualista” della giustizia amministrativa: esso affida la cognizione delle controversie nei confronti della Pubblica Amministrazione a due diversi giudici (amministrativo ed ordinario) sulla base di un criterio di riparto della giurisdizione fondato sulla natura della posizione giuridica fatta valere in giudizio. In assenza di una precisa definizione della situazione giuridica soggettiva indicata con il termine “interesse legittimo”, tale criterio ha determinato (e continua a determinare) notevoli incertezze in ordine all’individuazione del giudice giurisdizionalmente competente: anche gli avvocati più esperti, in numerose occasioni, hanno ovviato al pericolo di una declinatoria di giurisdizione proponendo (per la medesima “pretesa fattuale”) una pluralità di azioni davanti alle diverse giurisdizioni.
Non è un caso, dunque, che il primo rimedio (di matrice essenzialmente pretoria) all’errore sulla giurisdizione fosse stato elaborato proprio all’interno del sistema della giustizia amministrativa: traendo ispirazione dalle coeve teorie civilistiche in tema di appello a giudice incompetente, fondate principalmente sull’aequitas e non su principi di stretto diritto, a partire da inizio Novecento il Consiglio di Stato iniziò a concedere una “rimessione in termini” nelle ipotesi in cui l’errore sul giudice dell’impugnativa fosse risultato scusabile.
Ciò premesso, nel corso del lungo cammino che ci accingiamo a percorrere saranno esaminate le tappe fondamentali, le motivazioni e le esigenze che hanno
condotto all’estensione del meccanismo della translatio iudicii alle questioni di giurisdizione. L’analisi sarà suddivisa in quattro parti. 
In primo luogo, ci si soffermerà brevemente (considerata la vastità della tematica) sulle origini storico – politiche del sistema “dualista” della nostra giustizia amministrativa, nato dalla sovrapposizione di due norme fondamentali (l. 20 marzo 1865, n. 2248 all. “E”, c.d. “Legge abolitrice del contenzioso amministrativo”; legge 31 marzo 1889, n. 5992, istitutiva della IV Sezione giurisdizionale del Consiglio di Stato). Ci si potrà così rendere conto di come la translatio iudicii costituisca un rimedio “a valle” di problematiche difficilmente risolvibili “a monte”, poiché strettamente connesse con la “costituzionalizzazione” (1948) dell’incerto criterio di riparto giurisdizionale fondato sulla dicotomia “diritto soggettivo” – “interesse legittimo”.
In secondo luogo, saranno analizzati nel dettaglio i “modelli” di translatio iudicii introdotti dal legislatore del 1940 per le ipotesi di incompetenza del giudice civile. Ciò per tre ragioni fondamentali: 1) delineare le caratteristiche dell’istituto processuale, differenziando quelle c.d. “intrinseche” alla sua funzione traslativa da quelle rappresentanti mere scelte di politica legislativa; 2) rilevare le differenze intercorrenti fra translatio iudicii e rimessione in termini per errore scusabile quali tecniche di rimedio all’errore sull’organo giudiziario da adire; 3) evidenziare le problematiche applicative sollevate dall’istituto (e le relative soluzioni elaborate in dottrina e giurisprudenza) nell’ambito di una trasmigrazione del processo che avviene fra giudici appartenenti al medesimo plesso giurisdizionale (davanti ai quali, pertanto, il processo è disciplinato dal medesimo rito). Saranno poi valutati gli argomenti offerti dalla dottrina e dalla giurisprudenza (antecedente al 2007) in merito all’applicabilità (o meno) dell’art. 50 c.p.c. nella diversa ipotesi di pronuncia declinatoria della giurisdizione.
Nella terza parte della presente analisi si entrerà nel vivo della tematica translatio “transgiurisdizionale”. Essa avrà per oggetto la c.d. “Rivoluzione pretoria” del 2007. In seguito al fallimento di alcuni tentativi di riforma costituzionale (1997), il legislatore ordinario aveva tentato “in via di fatto” di superare il tradizionale criterio di riparto giurisdizionale a favore di quello (più semplicistico) fondato sulla “materia” oggetto della controversia. Proprio la gravissima vicenda che aveva visto, dapprima, l’estensione a dismisura dell’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ad opera di un decreto delegato (d. lgs. 31 marzo 1998, n. 80) e di una legge processuale (l. 21 luglio 2000, n. 205) e, successivamente, un duplice intervento di “sanatoria” ad opera della Consulta (sent. 6 luglio 2004, n. 204 – sent. 11 maggio 2006, n. 191) a protezione dei limiti posti dalla Costituzione alla devoluzione di diritti soggettivi alla cognizione dei Tribunali amministrativi, aveva dimostrato icasticamente i fortissimi rischi di diniego di giustizia sostanziale ai quali la cattiva qualità delle regole di riparto giurisdizionale (normalmente fonti d’incertezza interpretativa e, nei casi più eclatanti, causa della loro stessa caducazione) sottoponeva costantemente gli amministrati: venuta meno per mano della Corte Costituzionale la giurisdizione amministrativa “per blocchi di materia” (servizi pubblici – urbanistica – edilizia), un numero incalcolabile di processi (pur correttamente instaurati davanti al giudice amministrativo sulla base delle disposizioni successivamente dichiarate incostituzionali) avrebbero dovuto chiudersi con una pronuncia di mero rito per sopravvenuto difetto di giurisdizione; tenuto conto che il processo civile non conosceva l’istituto dell’errore scusabile, nel caso di azioni sottoposte a brevi termini di decadenza ciò avrebbe determinato la perdita (peraltro incolpevole) del diritto fatto valere in giudizio.
Dandosi meritoriamente carico di un problema che sarebbe stato compito del legislatore risolvere, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sent. 22 febbraio 2007, n. 4109) hanno cercato di porvi rimedio utilizzando i propri strumenti ermeneutici, ricostruendo il sistema processuale all’epoca vigente in modo da affermare (de iure condito) la praticabilità della translatio dal giudice ordinario al giudice speciale (e viceversa).
Attraverso un percorso sicuramente non privo di forzature, le Sezioni Unite hanno evidenziato la mancanza nell’ordinamento di un espresso divieto di translatio iudicii fra giurisdizioni, proponendo una rilettura ad hoc delle norme processuali concernenti la decisione sulla questione di giurisdizione. Alla base dell’intero ragionamento, la Suprema Corte ha giustamente posto la superiore esigenza di effettività della tutela, nonché la necessità di interpretare le disposizioni contenute nel codice di rito (entrato in vigore nel 1942) in modo conforme ai principi contenuti nella Carta Costituzionale (1948): essi impongono una lettura delle disposizioni processuali funzionale (nei limiti del possibile) ad assicurare una decisione nel merito della controversia, in modo tale che la pluralità delle giurisdizioni non si traduca in una minore effettività (o, addirittura, in una vanificazione) della tutela ma assicuri (sulla base di distinte competenze) una più adeguata risposta alla domanda di giustizia. Alla luce della Costituzione del ’48, infatti, il compito del giudice consiste nell’erogazione di un servizio e non più nell’esercizio di un potere: tale servizio va pertanto reso nell’interesse del suo destinatario, vale a dire il cittadino che chiede giustizia.
Intervenuto a pochi giorni di distanza (sent. 12 marzo 2007, n. 77), il Giudice delle Leggi, pur rispettando l’autorevolezza della soluzione interpretativa prospettata dalla Suprema Corte e condividendone i motivi ispiratori, ha negato la premessa fondamentale sulla quale quest’ultima ha fondato la propria ricostruzione: in dichiarato contrasto con la predetta pronuncia, la Corte Costituzionale ha escluso l’immediata applicabilità della translatio nei termini delineati dalla Cassazione e, nel ribadire la primaria esigenza di assicurare una decisione nel merito delle controversie, ha dichiarato incostituzionale il “principio d’incomunicabilità delle giurisdizioni” (da essa ritenuto immanente nell’intero sistema dei rapporti fra giudici ordinari e speciali).
La Consulta ha chiarito tuttavia che la propria declaratoria d’illegittimità costituzionale si sarebbe limitata a travolgere tale principio, vincolando unicamente il legislatore ad intervenire con urgenza a colmare la lacuna apertasi nell’ordinamento processuale in termini idonei a “conservare gli effetti prodotti dalla domanda originaria”, ferma restando la sua libertà di scegliere “le modalità e i termini per la riassunzione”. La sentenza ha precisato infine che nelle more dell’intervento legislativo, i giudici “ben potranno (laddove possibile usando i tradizionali strumenti ermeneutici) dare attuazione al principio della conservazione degli effetti della domanda”.
Dopo oltre due anni di attesa, nonostante la Corte Costituzionale avesse ravvisato l’esigenza di colmare il più celermente possibile una grave lacuna dell’ordinamento processuale, il Parlamento ha infine provveduto a disciplinare il meccanismo della trasmigrazione della causa fra giurisdizioni con un duplice e “scoordinato” intervento. La prima occasione si è avuta nell’ambito della recente riforma del processo civile ad opera della l. 18 giugno 2009, n. 69: l’art. 59 della legge contiene infatti un peculiare modello di translatio, destinato a trovare applicazione generale nell’ambito dei rapporti fra ogni giurisdizione dello Stato. Il secondo intervento (di natura “settoriale”) é stato determinato dall’emanazione del d. lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (c.d. “Codice del processo amministrativo”): in esso è stata introdotta una disposizione ad hoc in tema di translatio fra giurisdizioni (art. 11) dal contenuto in gran parte (ma non completamente) analogo al sopra menzionato art. 59.
L’ultima parte della presente ricerca sarà pertanto dedicata ad un’analisi dettagliata delle norme introdotte dal legislatore in tema di translatio iudicii transgiurisdizionale. Le disposizioni richiamate hanno offerto una risposta soddisfacente a numerosi degli interrogativi sorti in seguito alle storiche sentenze del 2007 (ad esempio: il termine per la prosecuzione del giudizio, il contenuto della pronuncia declinatoria della giurisdizione, il vincolo per le parti e per il giudice ad quem ecc...), ma ne hanno al contempo aperti di nuovi: alcuni di essi sono dovuti alla tutt’altro che pregevole formulazione delle disposizioni; altri sono causati dalle difficoltà intrinseche nell’applicare un istituto, originariamente concepito per trasmigrazioni interne alla medesima giurisdizione, a rapporti processuali destinati a proseguire davanti a plessi giudiziari disciplinati da riti completamente differenti rispetto a quello a quo. Si cercherà, pertanto, di verificare l’efficienza della tecnica della translatio quale rimedio all’errore sulla giurisdizione.
Sarà inoltre interessante esaminare le soluzioni adottate da dottrina e giurisprudenza in merito alle lacune ed agli interrogativi sollevati dalle norme, in modo tale da vagliarne la coerenza con le scelte adottate (rispetto ad analoghe problematiche) relativamente alla translatio per incompetenza del giudice civile. 
A tal scopo, tuttavia, si dovrà preliminarmente fornire una risposta a due domande: 
1) può considerarsi il meccanismo introdotto dagli artt. sopra richiamati un’autentica translatio iudicii ? Come si vedrà dettagliatamente, ad un primo esame esso appare un “ibrido” fra una mera “riassunzione del processo” ed una “riproposizione della domanda con effetti retroattivi” (tecnica processuale sconosciuta nell’ordinamento italiano ma contemplata dall’art. 204 del BGB tedesco); 
2) il processo, in seguito alla declinatoria della giurisdizione, può ancora considerarsi pendente? Se così non fosse, la translatio iudicii (la quale, come appena ricordato, consiste in una “riassunzione”, ossia in un atto di mero impulso processuale) mai potrebbe costituire strumento idoneo a “riattivare” un processo definitivamente chiuso in rito.

Indice della Tesi (pgg. 1 - 383)

Introduzione.............................................................................................

Capitolo I. Translatio iudicii e giustizia amministrativa. Origini del sistema “dualista”.....................
...................................................................................................................X
1. L’esigenza di un giudice “speciale” per le controversie nei confronti della Pubblica Amministrazione................
....................................................................... 
2. L’abolizione del contenzioso amministrativo e l’allegato “E” della legge n. 2248/1865. Verso l'unita' di giurisdizione?.....................
.......................................................................................
3. Nascita della dicotomia "diritto soggettivo" - "interesse legittimo". La legge n. 5992/1889 istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato...................................
..........
4. Rilevanza dell'errore scusabile nel processo amministrativo. Un rimedio pretorio per esigenze di giustizia sostanziale.
... 4.1. La sospensione del termine di decadenza per impugnare i provvedimenti della Pubblica Amministrazione.........................................
....4.2. Da elaborazione giurisprudenziale ad istituto di diritto positivo. La legge n. 88/1925 e le modifiche agli articoli n. 34 e 36 del Testo Unico delle leggi sul
          Consiglio di Stato (legge n. 1054/1924). L’introduzione della regola della rimessione in  
          termini.....................................................................................................................

Capitolo II. La translatio iudicii nel codice di procedura civile del 1940. Questioni di competenza........................................
..............................................................X
1. La “competenza” nel processo civile: da presupposto processuale a condizione di decidibilità della causa nel merito. Il pensiero “visionario” di   
    Chiovenda e Mortara..............
...............................................................................
2. I modelli di translatio iudicii disciplinati dal legislatore civile.
... 2.1. Il secondo comma dell’art. 38 c.p.c.. L’accordo endoprocessuale sulla competenza territoriale derogabile....................................................................
    2.2. Analisi del modello di translatio contenuto nell’art. 44 c.p.c.. La “incontestabilità” della competenza del giudice “indicato” ed il principio della Kompetenz 
          – Kompetenz.................................................................................

3. L’art. 50 c.p.c.. Riassunzione della causa davanti al giudice dichiarato competente. Il termine per la riassunzione e l’estinzione del processo...............................
.................
4. Analisi delle principali problematiche relative al meccanismo della translatio.
....4.1. La natura dell’istituto disciplinato dall’art. 50 c.p.c.: autentica riassunzione o riproposizione della domanda con effetti retroattivi? Ripercussioni sul  
          contenuto dell’atto traslativo.......................................................................................................
    4.2. Il destino dell’attività compiuta davanti al giudice incompetente........................X 
          4.2.1. Il valore da attribuire alle prove raccolte davanti al giudice a quo. Le decadenze e le preclusioni maturate....................................... 
          4.2.2. In particolare: la teoria della competenza in senso “dinamico”............................................................... 
          4.2.3. La sorte della tutela cautelare eventualmente concessa dal giudice incompetente..................................................................
    4.3. Applicabilità dell’art. 50 c.p.c. nei casi di appello a giudice incompetente .....
.....................................................................
5.Inapplicabilità dell’art. 50 c.p.c. in caso di difetto di giurisdizione del giudice adito...............................................................................................................X 
    5.1. Le questioni di giurisdizione nel codice di procedura civile..
  5.2.La dottrina favorevole alla trasmigrazione della causa fra giudice ordinario ed amministrativo................................................................................................................X
 5.2.1. Giurisdizione ordinaria ed amministrativa quali mondi distinti ed incomunicanti. L’opinione dissenziente di VirgilioAndrioli......................................................................................................
      5.2.2. La teoria di Franco Cipriani: translatio iudicii “a senso unico”........................................................................................................     
      5.2.3. I saggi di Renato Oriani.................................................................. 
  5.3. Il problema derivante dalla possibile diversità di petitum fra domande proponibili rispettivamente davanti al giudice ordinario ed amministrativo..........................................................................................................
    5.4. Alcuni progetti di riforma del codice di procedura civile.................................

Capitolo III. Necessità di estendere l’istituto della translatio iudicii alle questioni di giurisdizione. La rivoluzione pretoria del 2007.

1. L’odierna evoluzione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. L'abuso del riparto di giurisdizione per "blocchi di materie" e gli interventi della Corte Costituzionale.

2. La sentenza 22 febbraio 2007, n. 4109 della Corte di Cassazione: translatio iudicii “de iure condito”.

3. La sentenza 12 marzo 2007, n. 77 della Corte Costituzionale: illegittimita' dell'art. 30 legge TAR. La salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda quale principio generale dell’ordinamento processuale.

4. Analogie e divergenze nel pensiero delle Corti.
            4.1. I contributi offerti dalla dottrina successiva alle pronunce.
           4.2. La ricostruzione della vicenda offerta dal giudice redattore della sentenza Costituzionale.

5. Le problematiche insolute. Tentativi dottrinali e giurisprudenziali di colmare il vuoto normativo. 
    5.1. In particolare: la pendenza del processo in seguito a pronuncia declinatoria di giurisdizione. Le modalità per la prosecuzione del giudizio.
    5.2. L’individuazione del termine per la prosecuzione del giudizio.
    5.3. Il contenuto della declinatoria di giurisdizione. Il vincolo per il giudice ad quem successivamente investito della cognizione della causa. 
   5.4. Ulteriori problematiche insolute: cenni e rinvio.

6. L’ulteriore estensione pretoria dell’istituto della translatio iudicii ai casi di competenza inderogabile del giudice amministrativo. 
    6.1. Il rilievo dell’incompetenza nella disciplina antecedente al nuovo codice del processo
amministrativo. Artt. 31, 34 e 35 Legge TAR.
  6.2. La competenza inderogabile del TAR Lazio in materia di provvedimenti commissariali per fronteggiare l’emergenza rifiuti nella regione Campania (art. 3 legge 27 gennaio 2006, n. 21). La sentenza 18 giugno 2007, n. 237 della Corte Costituzionale e la giurisprudenza seguente.

7. Uno sguardo alla giurisprudenza amministrativa locale: il TAR Piemonte ammette la “continuazione”.


Capitolo IV. Il duplice intervento del legislatore in tema di translatio iudicii transgiurisdizionale. L'articolo 59 legge 18 giugno 2009, n. 69 e l’articolo 11 d. lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (c.d. “Codice del processo amministrativo”)....
........................................................X
1. L’art. 59 legge n. 69/2009: una disposizione "extra-vagante".......................................................X 
    1.1. Ambito applicativo e disciplina transitoria....................................................... 
    1.2. La “natura” del meccanismo salvifico introdotto dal legislatore......................Pag. 259
         1.2.1. Riassunzione del processo, riproposizione della domanda con effetti retroattivi ovvero attribuzione retroattiva di effetti a domanda nuova? Contrasti tra   
                  i diversi commi della disposizione...
         1.2.2. Gli ostacoli ad una ricostruzione della disposizione in termini di riassunzione del processo (mediante riproposizione della domanda). Il problema della
                  c.d. “trasformazione del petitum” e la pendenza del processo in seguito alla declinatoria di giurisdizione
    1.3. La salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda. Adempimenti necessari...
         1.3.1. Le modalità di prosecuzione del giudizio.  
         1.3.2. Il termine perentorio per la prosecuzione del processo. Problemi nell’individuazione del dies a quo e possibili interferenze con il sistema delle 
                  impugnazioni....
         1.3.3. L’estinzione del processo..
        1.3.4. Le decadenze e le preclusioni maturate nel giudizio davanti al giudice a quo. Il silenzio del legislatore circa la possibilità, per il giudice ad quem, di  
                 concedere la rimessione in termini per errore scusabile. La nuova disciplina prevista dall’art. 153,2 c.p.c.
   1.4. La pronuncia declinatoria della giurisdizione..
        1.4.1. Il contenuto della statuizione del giudice a quo...............
        1.4.2. Il vincolo per le parti..
       1.4.3. Il vincolo per il giudice ad quem e l’introduzione del c.d. “regolamento di giurisdizione d’ufficio”. Il riferimento della norma alle disposizioni sul
                 regolamento preventivo di giurisdizione
  1.5. La sorte delle attività compiute davanti al giudice privo di giurisdizione. In particolare: la “degradazione” dei mezzi istruttori acquisiti a semplici argomenti di  
        prova..
   1.6. Le lacune dell’art. 59. In particolare: il silenzio del legislatore in tema di litispendenza, connessione e continenza di cause proponibili davanti a giudici appartenenti a differenti plessi giurisdizionali.........................................................

2. L’art. 11 c.p.a.: pronuncia declinatoria della giurisdizione del giudice amministrativo.
        2.1. Ammissibilità / necessità di una norma ad hoc in tema di translatio iudicii fra giurisdizioni all’interno del nuovo Codice del processo
              amministrativo.
        2.2. Natura ed oggetto della normativa introdotta dal legislatore delegato. Ambito applicativo e disciplina transitoria. 
        2.3. Confronto con la disciplina prevista dall’art. 59 l. n. 69/2009.
              2.3.1. In particolare: la “riproposizione del processo”. Discussione, nei lavori preparatori del c.p.a., in ordine alla scelta fra “riassunzione del processo” e  
                       “riproposizione della domanda”.
              2.3.2. L’efficacia della tutela cautelare eventualmente concessa dal giudice a quo. Rapporto fra giurisdizione / competenza e provvedimenti cautelari nella
                       disciplina del processo amministrativo antecedente al Codice
          2.3.3. (segue) la disciplina introdotta dal legislatore delegato: “continuità” della tutela cautelare mediante “ultrattività” del provvedimento emesso dal giudice
                  poi rivelatosi privo di giurisdizione / competenza.
       2.3.4. L’espressa previsione circa la possibilità, per il giudice ad quem, di concedere la rimessione in termini per errore scusabile .
3. Cenni sulla disciplina della competenza (e del rilievo dell’incompetenza) nel nuovo Codice del processo amministrativo. Inderogabilità della competenza territoriale ed estensione ex lege del meccanismo della translatio.

Considerazioni finali.

Bibliografia




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